Gestire e rappresentare il rischio nel private equity è più complesso rispetto agli investimenti tradizionali. Come fare? Ecco le quattro dimensioni di rischio e il fil rouge che le collega.
Nelle mie conversazioni con gli investitori, i gestori e gli intermediari dell’industria dei fondi privati internazionali, ci sono due temi ricorrenti, che sono al centro delle mie attenzioni professionali. Il primo è la democratizzazione dell’investimento ed il secondo, giusto contraltare del primo, la necessità di migliorare il controllo del rischio e la sua comunicazione in tema di mercati privati. Porto in questo contributo l’attenzione su questo secondo aspetto, che è, e sarà, incrementalmente una leva critica del wealth management per ottenere una vera democratizzazione, consapevole e sicura, degli strumenti di capitale privato
Il rischio come ce lo aspetteremmo
Gestire e rappresentare il rischio nel private equity è più complesso rispetto agli investimenti tradizionali per le peculiarità di misurazione della performance del private equity. In mancanza di dati transazionali, non esistendo un mercato liquido e continuo che scambia quote di investimenti privati viene meno la possibilità, quantomeno immediata, di ricorrere alla misura tipicamente usata per il rischio nelle asset class tradizionali, ovvero la volatilità dei prezzi.
Nell’assunto che questa sia il corretto parametro di rischio per gli investimenti – materia ampiamente dibattuta che tralasciamo), mancando la possibilità di calcolare in modo immediato la varianza dei prezzi (ovvero la volatilità) – viene meno la possibilità di fare riferimento agli indicatori che tipicamente sono utilizzati nelle asset class tradizionali. Facendo riferimento ai dati di tasso interno di rendimento o di multiplo, ogni riferimento a beta o sharpe o sortino ratio e simili non ha senso.
Il rischio com’è
Non ha nemmeno senso l’affermazione tradizionale, frutto di narrativa semplicistica di marketing, che il rischio nel private equity è gestito ex ante mediante la diversificazione. Ciò è vero se condito con i giusti attributi, che però sono validi in media per qualunque allocazione diversificata anche ad altra classe di attivi, e che sono quelli del lungo periodo e della condizione di non smobilizzo – ovvero l’immobilizzazione (o illiquidità) del portafoglio.
Peraltro, questo è meno vero nel private equity, per quanto illustrato nel mio precedente contributo, poiché nel private equity il meccanismo di drawdown (ovvero di chiamata di capitale) può esporre a situazioni di default simili a quelle degli investimenti a margine.
Tradizionalmente, al rischio nel private equity sono attribuite quattro connotazioni usualmente trattate in modo disaggregato, senza la visione olistica che gli investitori stanno ricercando – spinti da una consapevolezza e cautela circa il livello delle valutazioni nei mercati e l’approccio ancora (e chissà ancora per quanto) lassista sui tassi di interesse.
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